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A soli 7 Km. da Viterbo, seguendo la Strada Teverina, è raggiungibile Ferento, la città romana fondata nel III sec. a.C, che raggiunse il suo massimo splendore in età imperiale e durante il Medioevo fu tra le principali antagoniste della città di Viterbo.
Info e contatti – Associazione Archeotuscia Onlus. Tel. 328 775 0233 – 3392716872 – archeotuscia@gmail.com
Orari di Visita: Invernale dal martedì al venerdì dalle ore 14,00 alle 17,00, sabato e domenica dalle ore 10,30 alle 17,00. Estivo dal martedì al venerdì dalle ore 13,00 alle 19,00 -Sabato e domenica dalle 10,30 alle 19,00.
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AREA ARCHEOLOGICA DI FERENTO
L’AREA ARCHEOLOGICA DI FERENTO
Sulla strada provinciale Teverina, poco oltre Acquarossa, la città romana di Ferentium fondata agli ini III sec. a.C., raggiunse il suo massimo splendore in età imperiale e durante il Medioevo fu tra le principali antagoniste della città di Viterbo i cui abitanti nel 1172, con l’accusa pretestuosa di eresia, la rasero completamente al suolo. Oggi, la zona archeologica presenta le imponenti e ben conservate rovine del teatro romano, edificato durante l’eta augustea e un altro importante edificio, quello delle terme, con i diversi vani ancora riconoscibili (frigidario, tepidario, calidario) dei quali ci rimane la pavimentazione a mosaico e parti di colonne e di mura.
Dall’Aprile del 2015, l’Associazione Archeotuscia Onlus, grazie ad una Autorizzazione della Soprintendenza Archeologica, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Roma, la provincia di Viterbo e l’Etruria meridionale, è l’Ente a cui è stata affidata l’area, garantendone la gestione del verde, il mantenimento e la pulizia degli spazi archeologi, e soprattutto l’apertura ai visitatori.
Di fatto, in concerto con la Soprintendenza, l’Associazione ha sviluppato tutta una serie di attività e iniziative di ambito scientifico e culturale che rendono vivo e fruibile il sito archeologico.
Per quanto concerne la conoscenza del sito, una folta bibliografia ci consente di avere un quadro chiaro e delineato a partire dal III secolo a. C., fino al XII secolo d. C.
Le rovine della città romana di Ferento si trovano su una lingua tufacea di forma allungata estesa una trentina di ettari, che si affaccia in modo davvero spettacolare sui torrenti Vezzarella e Acquarossa.
La città di Ferento era attraversata dalla via publica Ferentiensis, un’arteria trasversale che collegava la via Cassia con la valle del Tevere e che, passando per Ferento, ne costituiva il decumanus maximus.
Ferento romana nacque in seguito dell’abbandono dell’abitato etrusco di Acquarossa e assunse notevole importanza specialmente durante il periodo imperiale.
Infatti sappiamo da Tacito e Vitruvio che la città divenne municipium e che fu ascritta alla tribù Stellatina, ma soltanto in età giulio-claudia raggiunse il massimo splendore con l’edificazione di sontuosi edifici pubblici tra cui il teatro, l’anfiteatro, le terme e il foro che grazie alla generosità di due privati cittadini, Sesto Ortensio e Sesto Ortensio Claro, venne completamente riqualificato. Anche il decumano venne dotato di un largo portico colonnato sul quale si affacciava un grande isolato, le tabernae, destinato ad attività commerciali.
Ferento venne fregiata del titolo di civitas splendissima, come ci ricorda un’iscrizione del II secolo d.C. rinvenuta nelle vicinanze, ma è anche famosa per aver dato i natali all’imperatore Marco Salvio Otone, che regnò soltanto 3 mesi nel 69 d.C., nonché a Flavia Domitilla, la moglie dell’imperatore Vespasiano e madre di Flavia Domitilla Minore, Tito e Domiziano, entrambi imperatori di Roma.
A partire dal III secolo d.C. le notizie su Ferento si fanno più incerte.
É di questo periodo SANT’EUTIZIO MARTIRE, nato a Ferento il 15 maggio 270 circa. Fu un cristiano della città di Ferento, martirizzato nel 270 ca. durante la persecuzione voluta dall’imperatore romano Aureliano.
Dopo le invasioni barbariche Ferento divenne sede di diocesi almeno dal VI-VII secolo; con il successivo conflitto tra longobardi e bizantini per la città inizierà inesorabilmente un lento declino con conseguente calo demografico. Nel 740 il re dei Longobardi, Liutprando, lasciata l’antica città di Ferento, giunse nella Valle del Nera e Fondò Ferentillo.
Nel corso dei secoli XI e XII Ferento sembra che si fosse organizzata in un’autonomia comunale con l’abitato che lentamente si era ripopolato. Ma il declino e la definitiva distruzione della città di Ferento avverrà nel 1172 ad opera dei viterbesi. Tale fatto sembra essere scaturito da continue rivalità tra i due centri sul controllo del territorio.
A seguito della distruzione di Ferento, una parte della popolazione si rifugiò in località “Le Grotte (attuale Grotte Santo Stefano) mentre ad altri fu permesso dai viterbesi di trasferirsi in città presso la zona di San Faustino.
Per meglio evidenziare l’annientamento della città rivale, i viterbesi aggiunsero al leone di Viterbo anche la palma, simbolo di Ferento, dando così origine allo stemma comunale viterbese che è ancora oggi così rappresentato.
LA SCOPERTA E GLI SCAVI
La scoperta di Ferento è legata al nome di Luigi Rossi Danielli, archeologo viterbese che insieme alla “Società Archeologica Pro-Ferento”, costituitasi nel 1906, condusse ricerche e scavi sul colle di Pianicara agli inizi del Novecento, effettuando lo sterro di gran parte del teatro e mettendo in luce il vicino impianto termale.
Tra il 1925 e il 1928 la Soprintendenza alle antichità di Roma completa la messa in luce del teatro e lo scavo restituisce tra le altre cose un prestigioso arredo statuario composto da nove Muse della mitologia classica (Melpomene, Talia, Erato, Euterpe, Clio, Tersicore, Urania, Calliope, Polimnia) che ornavano le nicchie dell’ordine inferiore del proscenio e una copia del Pothos del celebre scultore Skopas, collocato nella cavea del teatro (oggi a Viterbo al Museo Nazionale della Rocca Albornoz).
Dal 1994 al 2009 l’Università degli Studi della Tuscia di Viterbo su concessione della Soprintendenza per i beni Archeologici dell’Etruria meridionale, ha condotto scavi sistematici con campagne di scavo rivolte al settore occidentale del pianoro, restituendo cinque settori che hanno permesso nuove acquisizioni particolarmente interessanti per l’insediamento medievale.
LE NECROPOLI
Numerose sono le necropoli che circondano Ferento, si conoscono la necropoli di:
- Procoietto: III-II secolo a.C., principalmente tombe a camera;
- Talone: IV-II secolo a.C.;
- Poggio della Lupa: famosa soprattutto per la Tomba dei Salvi, la famiglia che dette i natali all’imperatore Marco Salvio Otone, sepolcro risalente al II-I secolo a.C. Interessante è la presenza a circa 200 metri da questa tomba della cosiddetta “Miniera di Ferento“, la galleria si sviluppa per almeno 50 metri sotto la rupe della collina, finalizzata alla ricerca di minerale ferroso, in genere limonite.
- Poggio della Lestra.
COSA SI PUÒ VISITARE
Il lavoro paziente e costante dell’Associazione Archeotuscia, ha permesso di riportare alla fruibilità gran parte degli scavi. Grazie alla loro opera di ripulitura e mantenimento sono visitabili i seguenti ambienti:
Il Teatro
Il teatro dell’antica Ferentium è orientato quasi perfettamente a N-S, con apertura della cavea rivolta a mezzogiorno. Il suo impianto originario risale al primo decennio del I sec. d.C. (12 – 17 d.C.). La cavea, della quale oggi permangono tredici gradoni di restauro, raggiungeva in antico 60, 33 m. di diametro e poteva ospitare fino a 3.000 spettatori.
Il settore inferiore della cavea (imea cavea) è scavata direttamente nella roccia (pietra aniciana decantata da Vitruvio, de arch., II 8), mentre i settori centrale e superiore (media e summa cavea), attualmente perduti, erano sostruiti. Due gallerie (o cryptae), l’inferiore attualmente visibile cieca e la superiore scomparsa, semicircolari, in cementizio, separate da un sistema di camere radiali (o cunei), contribuivano a sostenere il peso delle gradinate nella parte centrale ed alta della cavea, completamente circondata da ventisette arcate a tutto sesto (2,50 m. diam.) in peperino (opera quadrata). Due rampe di scale, delle quali si conservano parziali tracce delle murature e dei gradini, consentivano il diretto accesso alla summa cavea dall’esterno dell’edificio scenico.
L’orchestra (20,40 m. diam.), pavimentata in peperino, presenta il balteus di delimitazione della proedria ed il canale di scolo dell’acqua piovana (euripus), smaltita al di sotto del piano di calpestio mediante tre cunicoli fognari. Le due speculari parodoi (o corridoi laterali) di accesso alle gradinate e all’orchestra, dotate in antico di volte, sono a piano inclinato, fiancheggiate da murature in opus reticulatum e pavimentate con lastroni di peperino.
Tra l’orchestra e la frons scaenae si apre la fossa scenica (largo 5 m. e profondo 1,50 m.), all’interno della quale è possibile scorgere dieci pozzetti quadrati in opus reticulatum, riconducibili al funzionamento del sipario (che in antico si muoveva dal basso verso l’alto) nonché gli incassi per le travature del tavolato che in occasione delle rappresentazioni teatrali ricopriva la fossa costituendo il proscaenium (palcoscenico) sul quale si esibivano gli attori.
La frons scaenae, parzialmente conservata, constava in antico di ben undici porte; attualmente ne restano solo sette: tre immettono sulla scena, le altre quattro conducevano agli ambienti di servizio (parascaenia), dislocati ai lati della facciata scenica. Per i loro movimenti scenici gli interpreti principali si servivano esclusivamente della porta più ampia (3 m.), la valva regia (o porta regalis), con fondo rettilineo tra lati arcuati, mentre gli attori secondari utilizzavano le due porte laterali (2,50 m.), le valvae (o portae) hospitales di pianta rettangolare. La frons scaenae, originariamente su due ordini, era decorata da numerose statue, scandita da colonne in preziosi marmi policromi e da nicchie destinate ad ospitare il ciclo scultoreo di Apollo e delle nove Muse, ascrivibili alla seconda fase costruttiva del teatro (150-170 d.C.), analogamente agli interventi murari in opus vittatum della facciata scenica. I successivi interventi, apportati principalmente alla decorazione architettonica, sono datati tra la fine del II sec. d.C. e gli inizi del III sec. d.C. (età severiana: 193- 211 d.C.); infine, gli ultimi interventi si collocano agli inizi del IV sec. d.C. (frammenti di capitelli corinzi asiatici; restauri fossa scenica nel c.d. opus vittatum mixtum).
Le Terme
Situate su di una vasta area (60 x 37 m.) ad E del teatro ed aperte sul Decumano massimo, le terme pubbliche di Ferentium constavano di un imponente edificio con uno sviluppo in altezza non inferiore ai 9 m., come testimonia il rudere in opera laterizia conservato nell’angolo S-E del complesso. Tramite tre ingressi dotati di due gradini ciascuno si accedeva ad una porticus, racchiusa da una peristasi di colonne in marmo cipollino, sulla quale si aprivano vari ambienti accessori, tra i quali probabilmente un unctuarium (sala massaggi).
Al centro del porticato, la natatio, grande vasca rettangolare (8,25 x 4,95 m.) profonda solo 1 metro, che accoglieva gli antichi frequentatori delle terme permettendo loro anche di rinfrescarsi in vista delle abluzioni. Due fontane di forma sigmoide ornavano con i loro giochi d’acqua l’accesso vero e proprio ai balnea. I primi ambienti che si scorgono, a destra e a sinistra di chi entra, sono i soli ad aver conservato per lo più intatta l’antica pavimentazione musiva in tessere bianche e nere, risalente alla prima fase costruttiva dell’edificio (prima metà del I sec. d.C.; età giulio-claudia), di poco successiva all’edificazione del teatro. Questi ambienti, due su ogni lato, erano adibiti a spogliatoi (apodyteria). Seguono le due vasche speculari per le abluzioni in acqua fredda (frigidaria), con rivestimenti parietali marmorei (dei quali permangono ancora delle tracce nella parte inferiore delle pareti) e gradini di accesso. Il ricambio e la pulizia dell’acqua erano garantiti da un foro di riempimento e svuotamento delle vasche, tuttora visibile. Mediante un corridoio, dalla stanza dei due frigidaria si passava a quella del tepidarium (vasca per abluzioni in acqua tiepida), con pareti in opera laterizia dotate di tubuli in terracotta per la diffusione dell’aria tiepida, per poi concludere il trattamento termale nel calidarium (ambienti per abluzioni in acqua molto calda), che a Ferento oltre ad essere rigorosamente esposto a S, secondo i dettami vitruviani (Vitr., de arch., V), si componeva di due distinte stanze: un calidarium di maggiori dimensioni destinato agli uomini ed uno più piccolo per le donne. In questi ultimi ambienti si scorgono distintamente i tubuli di terracotta per il passaggio dell’aria calda e le suspensurae a sostegno del pavimento che consentivano alle stesse tubature di diffondere omogeneamente il calore nell’intero ambiente. Lungo le pareti delle sale erano presenti una serie di banchine utilizzate durante il trattamento termale. Il settore O del complesso era adibito agli ambienti di servizio, frequentati esclusivamente da manodopera schiavile, nei quali è possibile individuare un praefurnium, la grande fornace che alimentava e manteneva costanti le alte temperature necessarie al funzionamento del sistema termale; il calore così propagato veniva canalizzato ed irradiato mediante canalizzazione in terracotta al di sotto dei piani pavimentali. Il fulcro dell’intero complesso era collocato al centro dell’ultima sala verso il lato S ed era costituito da una grande esedra a sezione curvilinea, decorata con tessere musive policrome, destinata assai verosimilmente ad accogliere uno o più simulacri marmorei, connessi al culto delle acque. Nel corso dei secoli le terme conobbero numerosi ampliamenti ed interventi riqualificativi, come quello finanziato dall’illustre famiglia ferentana degli Hortensi (CIL, XI 7431) in età giulio – claudia (I sec. d.C.). In epoca altomedievale l’edificio, parzialmente interrato, venne obliterato da un caseggiato di abitazioni private.
Il Decumanus maximus
l decumanus maximus (principale asse viario urbano con orientamento E-O) dell’antica Ferentium, tratto cittadino della via publica Ferentiensis lastricato a grandi basoli poligonali di selce misura, tra le crepidines (marciapiedi) in parte distrutte, 3,60 m. Intersecandosi con l’altro asse viario principale, il cardo maximus con orientamento N-S (attualmente non localizzabile), determinava l’assetto ortogonale per stringas del reticolo viario urbano, forse risalente al III sec. a.C., individuato dall’esame delle fotografie aeree, nel settore orientale del pianoro della Pianicara. La via publica Ferentiesis, la cui denominazione ci è stata tramandata da fonti epigrafiche (CIL, XI 3003), collegava la consolare Cassia viterbese (mansio delle Aquae Passeris, loc. Bagnaccio – terme del Bacucco) ai porti fluviali sul Tevere. Uscendo dall’abitato dal versante occidentale, la via Ferentiensis si diramava già all’altezza del c.d. mausoleo dei Postumii. Un suo diverticolo, ancora visibile, scendeva nella sottostante valle di San Gemini per scavalcare su di un ponte etrusco il fosso dell’Acquarossa, mentre il suo principale tracciato orientale puntava verso la zona settentrionale dell’agro Falisco e, più precisamente, verso il porto fluviale sul Tevere in loc. Seripola (Orte). Uscendo dall’antica Ferento, sullo stesso versante orientale il tracciato proseguiva formando una strada extra-urbana che conduceva alla valle tiberina, dove se ne perdono le tracce. Un suo diverticolo discendeva, inoltre, dal pianoro della Pianicara verso il fosso Guzzarella per collegare i centri di Magugnano e di Grotte S. Stefano.
Le Tabernae
Tra il 1994 ed il 2002 scavi archeologici condotti dal Dipartimento di Scienze del Mondo Antico della Facoltà di Conservazione dei Beni Culturali dell’Università della Tuscia di Viterbo e diretti dalla dott.ssa Gabriella Maetzke, consentirono di riportare alla luce, tra le altre evidenze archeologiche, un complesso di ambienti a carattere commerciale (tabernae), aperto lungo il lato N del Decumano massimo. Al termine delle indagini, tali ambienti, la cui ricostruzione fu resa estremamente complessa dai successivi interventi medievali, vennero nuovamente interrati per garantirne una sicura conservazione in previsione di un allestimento adeguato. Le tabernae sono delimitate da una serie di muri paralleli ortogonali alla via basolata, realizzati con diverse tecniche (quasi reticolato con blocchi angolari e craticium), alcuni probabilmente frutto del riutilizzo e della regolarizzazione di strutture preesistenti. Essi definiscono più ambienti rettangolari, di varie dimensioni, con accesso su un’area porticata larga circa 6 m., definita da basi di colonna in tufo a ridosso dell’asse viario. I locali, pavimentazioni per lo più in cocciopesto, prevedevano degli ampi ingressi definiti da lunghe soglie in pietra (nel solo esempio conservato questa misura 3,80 m. e conserva gli incassi per ante scorrevoli in legno) ed un’articolazione interna in più vani, delimitati ad oggi da lacerti di strutture murarie che non consento purtroppo di risalire con precisione alla divisione degli spazi, alcuni dei quali destinati alla vendita (quelli aperti sul Decumano), altri alla produzione o all’attività amministrativa. A Ferento non à stata individuata nessuna traccia di piani superiori, sebbene sembri un’ipotesi plausibile, né spazi con funzione abitativa, forse situati più a N.
Il carattere commerciale di quest’area è confermato dall’elevata quantità di monete rinvenute sui piani pavimentali degli ambienti, le cui datazioni abbracciano un orizzonte cronologico che va dall’età repubblicana alla tardo antichità (IV sec. d.C.).
La Domus ad atrio
In età repubblicana, nella fascia longitudinale adiacente al Decumano massimo (all’epoca, forse, solo un tratto della via Ferentiensis), sorsero officine per la lavorazione del ferro, la cui presenza è documentata sia dal rinvenimento di numerosissime scorie che dalla localizzazione di un buon numero di pozzi-cisterna ipogei scavati nel tufo, probabilmente funzionali alla stessa produzione, obliterati sotto Tiberio (14-37 d.C.) o Claudio (41-54 d.C.) per lasciare il posto ad abitazioni private. Una di queste, situata nel settore N-O adiacente al teatro, è la domus ad atrio di età giulio-claudia (14-54 d.C.), le cui strutture estremamente lacunose state ora visitando. Già messa in luce a seguito degli sterri del 1957, è stata oggetto di indagini scientifiche nel 2001, sotto la guida del prof. Carlo Pavolini per conto dell’Università della Tuscia di Viterbo. I lacerti murari visibili sono realizzati con tecniche molto varie, dato il ricorso a diversi tipi di materiali disposti in vario modo e di pavimentazioni in scaglie di calcare legate da malta. La domus era dotata di un affaccio sul Decumano composto da un ampio portico del quale permangono alcuni rocchi in pietra vulcanica e da tre tabernae). La comunicazione fra l’esterno e l’interno dell’abitazione era sorvegliata dalla postazione dell’ostiarius (portinaio) ed attuata mediante la successione del vestibulum e delle fauces (6), componenti l’ingresso della domus. Sul’ingresso si aprivano una stanza di soggiorno e di rappresentanza (11), probabilmente da identificare nel tablinum ed un triclinium. Adiacenti all’ambiente 11, erano un corridoio a forma di L (ed un presunto vano scala, che conduceva ad un piano superiore. Il fulcro dell’abitazione era costituito dall’atrio di tipo tuscanico, cioè privo di colonne e con le falde del tetto convergenti verso l’interno, centrato sull’impluvium in lastre modanate di pietra vulcanica, in ottimo stato di conservazione. L’atrio sul quale si aprivano quattro cubicula, o camere da letto, era chiuso sullo sfondo dal muro perimetrale dell’edificio, che divideva le stanze dall’abitazione da una sorta di corte scoperta, situata alle spalle dell’abitazione e, pertanto, raggiungibile solo dall’esterno, e dotata di almeno tre cisterne, servite da un sistema di canalette finalizzate a convogliare l’acqua proveniente dall’impluvium. Un analogo serbatoio si trovava probabilmente al di sotto dell’ambiente, dove infatti il pavimento è sprofondato. La domus ad atrio ferentana condivide molte delle sue peculiarità planimetrico- architettoniche con la coeva domus pompeiana del Sacerdos Amandus, in via dell’Abbondanza, le cui irregolarità sono il frutto di numerose trasformazioni edilizie, le stesse che molto probabilmente subì l’abitazione di Ferento.
Il Complesso delle cisterne pubbliche
Una delle numerose traverse del Decumano massimo divideva il settore N-O interessato dalla presenza della domus ad atrio da un poderoso impianto di cisterne pubbliche addossate alle arcate del teatro, eretto in età giulio-claudia (14-54 d.C.), contemporaneamente all’edificazione delle terme. L’impianto (14 x 26 m.) si compone di tre vani comunicanti di notevoli dimensioni, realizzati in opus mixtum con cubilia tufacei di forma irregolare giustapposti a ricorsi laterizi, costituiti da cinque filari di tegole o di mattoni e pavimentati in cocciopesto. Il complesso idrico è stato posto in plausibile relazione con l’acquedotto cittadino dell’antica Ferentium, del quale le cisterne costituirebbero un castellum aquae terminale, adibito in primo luogo al servizio dell’edificio di spettacolo, ma verosimilmente anche delle stesse terme pubbliche.
Verso l’estremità orientale di Piancara si trova l’anfiteatro ancora non scavato e visibile solo in parte soprattutto grazie all’introspezione aerea.
Testo a cura di Archeotuscia Onlus.
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