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La casa in cui visse Santa Rosa, da povera dimora, è oggi parte del Monastero delle Clarisse di Santa Rosa. Prima di arrivare al Monastero dedicato alla santa, percorrendo via Casa di Santa Rosa, c’e una targa che avverte laconicamente dove “Nacque e visse la vergine Santa Rosa”.
Info: Tel: 0761 342887 – E – Mail: monasterosantarosa@alice.it | Orario visite Giovedì, Sabato e Domenica 9:30 – 12:30; 15:30 – 18:30
MUSEO DELLA CASA DI SANTA ROSA
STORIA E DESCRIZIONE
La casa in cui visse Santa Rosa, da povera dimora, è oggi parte del Monastero delle Alcantarine di Santa Rosa. Prima di arrivare al Monastero dedicato alla santa, percorrendo via Casa di Santa Rosa, c’e una targa che avverte laconicamente dove “Nacque e visse la vergine Santa Rosa”. Nata da una famiglia semplice e popolana, dei suoi genitori si conoscono i nomi: Giovani e Caterina. Le fonti antiche parlano della loro bontà e sono detti “Catholici et christianissimi”. La mancanza di un nome patronimico, che allora possedevano solo le famiglie gentilizie, è a dimostrazione dell’origine umile della famiglia. Il padre faceva il contadino, come conferma l’esistenza di un modestissimo granaio nella sua abitazione. Sembra sia stato affittuario di un campo delle stesse monache, con le quali la loro casa confinava. Dopo la morte dei genitori della santa, la casa per più di tre secoli appartenne a vari proprietari: passò alle monache solo nell’aprile 1661, come testimoniato dall’atto notarile e catastale conservato ancora nell’archivio del monastero. La tradizione ricorda una serie di miracoli avvenuti nell’abitazione, tra i quali quello di Laura Biella, miracolata dalla santa, l’ultima a dimorare all’interno dell’edificio. Questa donna ottenne la grazia di “veder salvato il suo ultimo figlio dalla morte, cui soggiacquero tutti gli altri appena nati”. Le cronache del tempo ricordano che la donna, disperata per aver perso tutti i suoi figli appena nati, pensò di dare alla luce il suo ultimo nato nella stanzetta di Santa Rosa e fu così che poté avere la gioia di un figlio. Oggi quelle stanze annerite sono consacrate al raccoglimento e alla preghiera. Il piccolo giardino della casa è unito al Monastero e alla chiesa di Santa Rosa, un complesso che oggi è circondato dalle mura cittadine. La struttura, al momento della sua prima costruzione, si trovava in aperta campagna, appena fuori porta Sonsa , edificata in un “angolo remoto, presso le mura della città, all’estremità del rione S. Marco, abitato allora da mandriani e agricoltori”. Fu uno dei primi monasteri francescani in Italia e il primo femminile in assoluto sorto a Viterbo. Sappiamo che anticamente sul luogo esisteva una chiesetta e un monastero chiamato S. Maria delle Rose. Il Coretini scrive che una pia signora, all’inizio dell’anno 1200, radunò intorno a sé delle “donzelle”, e diede inizio ad una specie di vita monastica presso la chiesa di Santa Maria. Con il tempo, per ampliare il monastero, la pia donna comprò “alcuni casilini”. Queste monache erano già presenti nel 1215, quando Gregorio IX dette loro la regola adottata anche in Assisi da Santa Chiara. Santa Rosa nasceva a Viterbo proprio in quegli anni, a ridosso del giardino del monastero. Quando il papa Alessandro IV nel 1258 ritrovò il corpo incorrotto di Santa Rosa nella fossa comune della parrocchia, ordinò che fosse trasferito nel monastero di S. Damiano, presso la chiesa di Santa Maria delle Rose. Era il 4 settembre del 1258. Il Mencarini, nel suo libro I racconti della vita e dei prodigi di Santa Rosa vergine viterbese così scrive: “Quel corpo adorato, composto su un ricco e splendido feretro, in atto di chi dolcemente riposi, con l’intervento di un pontefice (Alessandro IV) e di quattro cardinali con seguito di pomposa corte e coll’accompagnamento d’infinita popolazione” entrava solennemente nel suo monastero. Era l’atto di nascita delle solenni processioni annuali in onore della Santa. Era, in embrione, il primo trasporto della “macchina” di Santa Rosa, che dal piccolo feretro del 1258 è oggi miracolosamente diventata la “Torre che cammina”. Fu allora che il monastero prese il nome di Santa Rosa. Il vecchio titolo di Santa Maria delle Rose fu trasferito ad una chiesuola che si edificò poco distante, e in seguito fu data in cura alla Confraternita dei Sacconi, fondata da Giacinto Marescotti. Nelle memorie del 1400 si legge che la vecchia chiesetta e il monastero di Santa Rosa erano malridotti e fatiscenti, anche in seguito ad un incendio che nel 1537 aveva quasi distrutto chiesa e monastero. Fu allora che l’urna prese fuoco e, a causa del fumo e del calore il corpo della santa appare ancora annerito. L’occasione propizia per i necessari restauri si presentò quando papa Martino V indisse l’Anno Santo nel 1450. I numerosi pellegrini che dal nord si recavano a Roma per lucrare le indulgenze, percorrendo la Cassia (detta anche via Francigena), facevano tappa a Viterbo e si fermavano a venerare Santa Rosa, lasciando abbondanti offerte. Queste permisero alle monache di restaurare la chiesa e chiamarono per affrescarla artisti famosi come Benozzo Gozzoli. La nuova chiesa che fu consacrata l’8 ottobre 1450 dal cardinale Palù de’ signori di Varanbrone, vescovo di S. Giovanni di Maurienne, assistito dal vescovo Caranzoni. Nel 1612 il card. Tiberio Muti, vescovo di Viterbo, nella sacra visita effettuata al monastero, ordinò di restaurare la chiesa, ormai divenuta insufficiente per i molti pellegrini che la frequentavano, giungendo da ogni parte. Fu allora che molti affreschi e dipinti preziosi andarono perduti. Il vescovo fece copiare gli affreschi del Gozzoli dal pittore orvietano Francesco Sabatini, che il 20 novembre 1632 giurò sul Vangelo di eseguire copie fedelissime, ma in realtà oggi possediamo solo nove cartoni a penna e a tempera, oltretutto anche mediocri, mentre le opere dell’artista, purtroppo, non ci sono più. In un salone quattrocentesco all’interno del monastero, oggi esistono solo due affreschi attribuiti al Gozzoli. La chiesa, notevolmente ingrandita nel 1632, era di stile gotico e durò fino al 1845, quando il card. Pianetti e le monache decisero di costruire l’attuale santuario. Fu l’anno seguente che ebbero inizio i lavori della nuova chiesa, progettata dal viterbese Vincenzo Federici. Si narra, a questo proposito, un aneddoto curioso dell’epoca. Il cardinale Pianetti aveva invitato tutti i viterbesi a dare offerte per la costruzione della nuova chiesa. Contemporaneamente, aveva ordinato a tutte le case religiose della città di contribuire alle spese dei lavori in proporzione ai loro redditi. Il cardinale venne a sapere che i Padri Agostiniani della Trinità, notoriamente molto benestanti, non risultavano ancora adempienti. Il cardinale Pianetti si incontrò allora a Roma con il padre Generale dell’ordine e lo invitò a sollecitare il Priore della Trinità a versare il dovuto contributo. Il Priore radunò il Capitolo, che decise di contribuire “sostanziosamente”. Un frate, però, annotò vicino al suo assenso: “Sono favorevole, ma faccio presente che questo convento ha dato più al santuario di Santa Rosa che alla chiesa di S. Agostino a Ippona!