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CHIESA DI SAN MARTINO AL CIMINO (ABBAZIA CISTERCENSE)
LA STORIA
Taluni documenti attestano come nella zona esisteva fin dal IX sec. (838) un cenobio benedettino in località Casa putida. In seguito due documenti del 1045 e del 1048 attestano come il cenobio fosse stato spostato in un’area più salubre. Nel 1145, papa Eugenio III, cistercense, affida a monaci del suo ordine provenienti da San Sulpice (nella Savoia), fondazione figlia della casa madre di Pontigny, una abbazia oberata di debiti nel tentativo di risollevarne le sorti. Alessandro III e Lucio III provvidero durante i loro pontificati a migliorare le condizioni dell’abbazia ma solo con Innocenzo III nel 1207, che affiderà la fondazione direttamente a Pontigny, si avrà un notevole sviluppo. E’ in questa prospera fase che il complesso abbaziale conobbe una fase di ripresa dei lavori e di ampliamento nelle maestose forme che in parte ancora si conservano. Nel 1225, anno della sua consacrazione, era già dotata dei servizi essenziali. Per l’effettivo completamento del complesso bisognerà comunque attendere gli ultimi decenni del secolo con la realizzazione dei vari ambienti monastici: l’infermeria, la biblioteca, il forno, l’officina, il refettorio, l’appartamento dell’abate e il “palatium parvum“, adibito a magazzino. La descrizione è merito di un meticoloso inventario redatto nel 1305 dall’abate Enrico. L’abbazia non ebbe, tuttavia, molta fortuna, già nel 1379 era pressoché in abbandono e nel 1426 ospitava ormai soltanto l’abate e un monaco. Papa Pio II nei suoi “Commentari” scriverà: …i gufi sostituiscono il canto degli antichi monaci…; e non furono risolutive le attenzioni del nipote Francesco Todeschini Piccolomini che alla fine del Quattrocento promosse il restauro di alcuni locali andati in rovina. L’anno più critico è il 1564 che segnò il definitivo allontanamento degli ultimi cistercensi e la destinazione della proprietà, da parte di Pio IV, al Capitolo Vaticano. La rinascita, attesa per circa un secolo, arriva coi Pamphili: nel 1645 Innocenzo X restituisce alla chiesa il titolo abbaziale, rendendola indipendente dall’autorità episcopale, e dona la “terra di S. Martino” alla cognata Olimpia Maidalchini che, con l’aiuto di famosi architetti (fra cui il Borromini), pone mano ad una sorprendente e radicale trasformazione del borgo con la costruzione del suo palazzo principesco sulle strutture dell’antica abbazia. La chiesa venne completamente ripristinata e la facciata affiancata da due torri campanarie poste a mo’ di contrafforti. Gli interventi, decisamente rivoluzionari, cambiarono l’assetto del vetusto complesso abbaziale, anche se ques’ultimo rimane riconoscibile in non pochi particolari: l’area absidale e il transetto della chiesa; una porzione di chiostro; alcune parti della sala capitolare e la cosiddetta sala dei monaci con i pilastri polistili; le volte a crociera costolonate e le finestre di severa struttura.
ESTERNO
La facciata, che si affianca al palazzo pamphiliano, è orientata ad ovest, secondo la tradizione cistercense, e racchiusa da due torri campanarie innalzate durante i lavori di ristrutturazione del 1651-1654 sotto la direzione di Marcantonio De Rossi. Di forma quadrata e ornati agli angoli da contrafforti (recentemente restaurati come gran parte delle mura perimetrali della chiesa) accolgono un orologio e una meridiana, entrambi sono conclusi da una copertura cuspidata sovrastante una bifora entro un arco a tutto sesto. Il finestrone, probabilmente aperto nel XV sec. per dare più luce all’interno dopo la eliminazione del primitivo oculo, è formato da due grandi monofore acute sormontate da un rosone a otto petali. Esso fa blocco col portale (forse appartenente alla costruzione originaria) ad arco la cui lunetta accoglie lo stemma di Innocenzo X: tre gigli e la colomba col ramoscello d’olivo sormontati dalle chiavi con la tiara. Sul fianco esterno della parte sinistra, all’altezza della prima campata, proprio nel punto di chiusura di un lato del chiostro, si apre una porta architravata che doveva mettere in comunicazione con il dormitorio dei conversi. Quantunque murata, si intravede sullo stesso lato, nella parte terminale della navata, dopo una nicchia divisa da un piastrino, la porta dei monaci decorata da una croce gigliata con tralci e grappoli d’uva (elementi che permettono di datarla alla metà del XIII secolo).
INTERNO
E’ solenne e austero, pervaso da una luce grigiastra che d’estate s’indora agli ultimi raggi del tramonto accolti a profusione della grande polifora della facciata. Gli interventi quattrocenteschi e, quindi, a seguire quelli pamphiliani e quelli ancora più recenti, hanno ridotto la tensione cistercense che inondava le navate, proponendo un equilibrato compromesso tra le severe linee alla “maniera tedesca” (come era definito lo stile gotico) e quelle più morbide dei secoli successivi. L’interno, a croce latina, si articola su tre navate divise da archi ogivali sorretti, alternativamente, da colonne e pilastri cruciformi di tipo borgognone che incorporano le lesene di sostegno alle ogive della volta a crociera quadripartita e costolonata. Ad ognuna delle quattro campate della navata grande, ne corrispondono due rettangolari nelle navate laterali. Lungo i muri d’ambito della navata centrale, illuminata da una doppia serie di cinque monofore -di cui due murate-, corre una cornice orizzontale che lega i capitelli delle lesene. Sul pavimento, presso l’ingresso, è collocata la grande lapide marmorea, voluta dalla principessa Olimpia Maidalchini Pamphili nel 1647, a ricordo delle benemerenze del card. Raniero Capocci, benefattore della costruzione, e del card. Francesco Piccolomini, commendatario nel XV secolo. Le due navatelle laterali sono buie rispetto alla centrale: la sinistra è totalmente priva di luci, nella destra si aprono delle strettissime finestre strombate su ogni campata. nella seconda campata della navata destra si ammira un elegante fonte battesimale circondato da una cancellata in ferro battuto frutto della fase barocca dei lavori dove compaiono le insegne pamphiliane con i gigli e la colomba col ramoscello d’olivo (1). Lo stemma posto al centro della vasca marmorea raffigura la tiara e le chiavi pontificie a ricordo degli anni in cui l’abbazia era riunita al capitolo Vaticano (1564-1645).Sulla parete, entro un riquadro a tarsie lignee, compare un frammento di affresco col Battesimo di Cristo, è quanto rimane di precedenti cicli pittorici lungo le mura. Lo stemma sul capitello della prima colonna di destra (2) della navata centrale verso l’altare (la più antica e rara testimonianza della costruzione originaria) è del cardinale Francesco Todeschini Piccolomini che diverrà papa con il nome di Pio III. Nel transetto di destra la porta detta dei morti (oggi murata), immetteva nel piccolo cimitero, la sormontano due finestre e un rosone. Accanto a questa è visibile un frammento di affresco entro un arco acuto che raffigura la Madonna col Bambino tra due santi; al di sopra sono dipinti angeli fra nubi (di difficile datazione) uno dei quali sostiene un cartiglio con la scritta “Consolatrix afflictorum“. Sulla parete destra del transetto due colonnine sostengono un organo costruito nel 1846 dall’organaro romano Girolamo Priori. In una delle due cappelle comunicanti (quella di destra) è collocato un frammento di affresco tardo bizantino con la Madonna in trono e il Bambino e un cardinale, il frammento di iscrizione in caratteri gotici identifica quest’ultimo con il cardinale Egidio de Torres, benefattore dell’abbazia. L’abside pentagonale si presenta illuminata da un doppio ordine di monofore. L’altare, decorato da archetti ciechi su colonnine lisce e tortili, appartiene alla primitiva costruzione cistercense (3). Raffinata ed elegante è una delle tre nicchie della parete destra del coro definita da un arco che include due archetti trilobi sormontati da un rosone lobato tra due cerchi. Nel pavimento del presbiterio, due lapidi ricordano le memorie di Olimpia e Girolamo Pamphili. L’opera d’arte di maggiore qualità conservata nella chiesa (attualmente esposta nell’attiguo Museo dell’Abate) è lo stendardo bifacciale realizzato nel 1650 da Mattia Preti per conto della Confraternita del SS. Sacramento (4): sul recto è raffigurato S. Martino a cavallo nell’atto di donare il mantello ad un povero; nel verso appare il Cristo eucaristico tra due angeli. La pregevole opera fu donata dai Pamphili, come documenta la presenza del loro stemma familiare, sia quello pontificio con le chiavi e la tiara di Innocenzo X che quello laico sormontato dalla corona principesca. Nel transetto di sinistra coperto da una volta a vele esapartita -col coro è la zona più antica dell’edificio- si apriva la porta di accesso -ora anch’essa murata- all’antica sacrestia preceduta dalla scala a profferlo (demolita) che conduceva al dormitorio dei monaci (5) attraverso un vano di passaggio. In questo ambiente si conservavano gli ex voto ora custoditi nel Museo. Nella seconda cappella di sinistra si conserva una modesta tela ottocentesca raffigurante la Madonna del Rosario. Nella prima cmpata sulla navata sinistra, presso l’ingresso, sono conservati due stendardi pertinenti alla Confraternita del SS: Sacramento e a quella del S. Rosario (rispettivamente del 1894 e del 1940): in ambedue sono raffigurati la Madonna col Bambino, San Domenico, San Martino, nel recto; l’Ultima Cena, nel verso.
IL CHIOSTRO E GLI AMBIENTI ABBAZIALI
L’unica testimonianza superstite dell’antico chiostro cistercense sono tre archi, più uno traverso sormontato da un contrafforte rampante, nel tratto di prosecuzione del braccio sinistro del transetto. Su questo lato si affaccia la sala Capitolare, detta anche “Camera del Trebbio”, sottostante l’antico dormitorio dei monaci. Ristrutturata nel XVI-XVII secolo fu decorata con stucchi e affreschi raffiguranti alcuni castelli pamphiliani (Montecalvello, Alviano, Attigliano, Poggio -l’odierna Guardea-), nelle lunette, nonché paesaggi con scene mitologiche e grottesche nelle vele delle volte a crociera; ancora vi si conserva un pregevole pavimento in bianco e nero di stile borrominiano e, nel sottarco, lo stemma di Ottaviano Riario Visconti, vescovo di Viterbo dal 1506 al 1523. Le due porte della parete destra, di cui una murata, mettevano in comunicazione con l’Armarium (la biblioteca) e l’antica sacrestia. Gli altri ambienti che danno su questo lato Est sono, oltre all’antico Armarium -la biblioteca-, il Locutorium (parlatorio), con volte a crociera e a botte, rimosso durante i lavori promossi da Donna Olimpia Maidalchini per ottenere un passaggio alla piazza retrostante detta del Teatro; e il vano di accesso a quella che probabilmente era la sala dei monaci, trasformata dai Pamphili in stalla. Questo locale, recentemente restaurato, è un gioiello di architettura e risente dello stile borgognone soprattutto nelle decorazioni dei capitelli che richiamano quelli della Casa Madre di Pontigny. Un’ulteriore testimonianza dell’antica costruzione è la porta che si apre sul lato Ovest, sotto il palazzo, segnalata da una croce tra due fiori entro arco trilobo (decorazioni riscontrabili nella chiesa cistercense di Bonmont del XII sec.) che metteva in comunicazione con il “palatium parvum“.
IL MUSEO DELL’ABATE
Il Museo, allestito nel 2000 nell’antico scriptorium o sala dei monaci, si conservano oggetti a carattere religioso, attraverso cui è possibile ripercorrere la storia dell’antico insediamento monastico. La raccolta comprende oltre a paramenti sacri, tra cui spiccano le pianete donate da Donna Olimpia al cugino divenuto papa Innocenzo X nel 1644; una croce professionale in argento (XIII sec.); reliquari in argento e legno; calici; pissidi; crocifissi; lavabi; un ex voto su tela con raffigurati la chiesa e il borgo (1644); un ritratto di Innocenzo X, attribuito al Bernini o alla scuola di Velasquez. Chiude la collezione il citato stendardo di Mattia Preti.
BIBLIOGRAFIA
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