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CHIESA DI SANTA MARIA DELLA VERITA’
LA STORIA
L’edificio, unitamente ad un complesso monastico, nasce agli inizi del XIII secolo articolato su una icnografia a croce latina coperta da un semplice tetto a vista sostenuto da capriate. La fondazione, la cui primitiva dedicazione era a s. Macario, fu, secondo una locale tradizione senza univoci riscontri documentari, opera dei monaci regolari premostratensi, la medesima tradizione tramanda come quest’ultimi abbandonarono la giovane fondazione per trasferirsi a Roma già nel 1231. Pochi decenni dopo, auspice il cardinale viterbese Raniero Capocci, il complesso era occupato dall’ordine dei Servi di Maria che imposero la nuova dedicazione alla Madonna con il titolo di S. Maria della Verità. Intorno alla metà del XIV secolo l’edificio conobbe un cospicuo ampliamento della zona presbiteriale con la creazione di una profonda abside semicircolare dove venne realizzato il coro. I rifacimenti risposero sul piano stilistico-formale ad un raffinato lessico gotico con coperture a crociera scandite da costolonature che scaricavano su esili colonnine. I lavori furono donati dalla famiglia aristocratica dei Bussi come documentato dallo stemma e dalla legenda nella chiave di volta. Lo stretto legame tra la città e la fondazione servita è documentato anche dalle sepolture sui cui coperchi sono scolpiti le immagini di facoltosi viterbesi ivi tumulati con indosso il mantello che contraddistingueva i terziari laici dell’Ordine. Un evento di grande rilevanza produsse notevoli ripercussioni sulla storia del complesso conventuale di S. Maria della Verità: nel 1446 si diffuse voce che nella chiesa era avvenuta una miracolosa apparizione della Vergine a tre bambini. L’epifania comportò la trasmutazione della chiesa in santuario con conseguente accensione di un sentito culto popolare e di un cospicuo afflusso di donazioni che contribuì in maniera decisiva all’arricchimento decorativo dell’edificio. Il dato di maggiore evidenza che emerge dal nuovo status santuariale dell’antico complesso è rappresentato dal suo assumere un peculiare significato socio-economico nell’ambito della comunità viterbese: il culto viene a denotarsi di natura prettamente popolare, alimentato dalle corporazioni di arti e mestieri. La campana fusa nel 1450 dal maestro viterbese Sante di Angelo (Sante delle Campane) con le prime offerte seguite all’evento miracoloso era ornata dagli emblemi delle arti (vasi, cazzuole, strumenti contadini, etc.). Il miracolo della “Verità” e dei bambini che avevano visto la Madonna segnò in ogni caso l’inizio di un rinnovato interesse per la chiesa che da allora assunse a luogo privilegiato per lasciti, restauri, voti e riconoscimenti in onore della Vergine; le famiglie-bene la scelsero per la sepoltura dei loro cari edificando cappelle ed altari di cui restano preziose testimonianze per merito soprattutto di Nardo Mazzatosta, committente della celebra cappella dipinta da Lorenzo da Viterbo e laboratorio privilegiato all’indomani della guerra per l’applicazione delle celebri teorie del restauro di Cesare Brandi. Luciano Bussi (il suo nome si legge nella crociera del presbiterio) si fece garante nel 1476 per il pagamento di pianete ed altri arredamenti sacri in dotazione al convento. Una decina d’anni dopo, i beni lasciati da Cristoforo di Antonio Tomassi verranno destinati al restauro del chiostro e delle balconate superiori. Le maggiori corporazioni viterbesi la elessero a sede delle loro funzioni religiose: i maestri della pietra (fedeli di Sant’Ambrogio) vi eressero una cappella nel 1468; i tessitori e i maestri della lana pregavano nella cappella dell’Assunzione, i muratori in quella del Crocifisso. La chiesa fu altresì punto di ritrovo per talune fratellanze e confraternite, anche “forestiere”: slavi, tedeschi, corsi; si ha notizia di una cappella “Theutonicorum” e di una appartenente alla “Società Corsorum“, la stessa famiglia Guizzi, committente della grande pala del Pastura con la Natività, erano corsi che avevano fatto fortuna a Viterbo con il commercio dei panni. Gran parte di queste cappelle oggi sono tamponate e documentate dalle sole mostre delle arcature in peperino ricollocate sulle pareti. Un anno critico fu il 1657: a causa della pestilenza, che aveva decimato i membri della comunità, le pareti dell’edificio vennero imbiancate a calce con irreparabili danni alle opere d’arte. Due secoli dopo, i monaci furono, loro malgrado, protagonisti di episodi di sangue, p. Manetto Piccolini fu ferito a morte il 24 ottobre 1867 in uno scontro a fuoco tra le truppe pontificie e un manipolo di “camicie rosse”. Il 22 novembre 1873 il convento venne espropriato dagli agenti demaniali a seguito della soppressione delle congregazioni religiose. Il 16 giugno 1912 la chiesa accolse in forma museale la collezione di materiale archeologico già riunito dal 1888 presso il Palazzo dei Priori. Nel gennaio del 1944 l’intero complesso subì gravi danni per un’incursione aerea degli alleati. Nel settembre dei 1955 si poté riaprire il museo ricollocato, però, nei locali del convento; il 19 marzo 1961 la chiesa ritornerà alle sue funzioni di culto come parrocchia di Santa Maria della Verità. Nel 1987 le precarie condizioni dell’ex convento costrinsero ad una prolungata chiusura del museo.
ESTERNO
Oggi la facciata esterna, ricostruita dopo i bombardamenti dell’ultima guerra come gran parte del complesso, si propone, in forme semplici e scarso interesse artistico, con una cortina di lastre di peperino su cui si aprono un portale cinquecentesco, sormontato da lunetta vuota tra due statue in pietra (le due statue rappresentano l’angelo annunciante e la Madonna annunciata ma incompresi dai restauratori sono stati montati rivolti verso l’esterno invece che in relazione tra loro) e un grande occhio centrale.
INTERNO
La grande aula in pietra viva, a croce latina, è di una grandiosità essenziale, intonata in buona parte ai rifacimenti della seconda metà del Quattrocento e del secolo successivo. Il transetto è aperto da un grande arco ogivale che poggia su esili colonnine pensili. Il tetto a capriate è decorato da pianelle dipinte in gran parte rifatte; quelle originali, della fine del Quattrocento, portano la firma di Paolo di Matteo. Nella controfacciata, a destra della bussola, è riportato su tela un affresco quattrocentesco attribuito al balletta strappato dalla stessa parete, rappresentante l’Annunciazione tra s. Maria Maddalena, s. Marta e s. Antonio. Il primo altare di destra, attualmente ridotto alla sola arcata di peperino, fu eretto dalla famiglia Guizzi e in origine conteneva la pala con la Natività dipinta dal Pastura (attualmente conservata nel Museo Civico). Subito dopo si apre la stupenda cappella Mazzatosta (1), a pianta quadrata in forme tardo-gotiche, conserva ancora l’originale cancellata in ferro battuto e parte del pavimento quattrocentesco a piastrelle di maiolica, realizzate dal ceramista viterbese Paolo di Nicola; alcune di queste piastrelle sono conservate al Victoria and Albert Museum di Londra. La cappella venne fatta edificare intorno alla metà del Quattrocento da Nardo Mazzatosta, definito dalle cronache del tempo l’”arbiter elegantiarum” dell’aristocrazia viterbese. Le decorazioni pittoriche sono di Lorenzo da Viterbo e scuola, giovane talento cittadino dalla misteriosa personalità che tra varie vicissitudini terminò la sua opera nel 1469. Di Lorenzo si conosce soltanto un altro quadro, una tavola conservata nella chiesa di S. Michele in Cerveteri, raffigurante la Madonna in trono col Bambino tra s. Michele Arcangelo e s. Pietro, datata 1472. Il suo ritratto idealizzato è reso nel busto posto a sinistra della cancellata eseguito, dopo l’ultima guerra, dall’artista viterbese Luigi Minciotti. Le scene, di soggetto mariano, vennero distrutte dai bombardamenti aerei e vennero sottoposte da parte dell’istituendo Istituto Centrale per il Restauro ad un intervento di ricostruzione e restauro innovativo e rivoluzionario che procedeva dalle teorie di Brandi qui applicate per la prima volta; ben ventitre mila frammenti furono recuperati e ricollocati in situ. Nel suo “Viaggio in Italia” Guido Piovene scriverà “Le bombe sbriciolarono quei bellissimi affreschi…credo che non si sia visto mai un salvataggio parziale così prodigioso“. La notevole impresa decorativa di Lorenzo è articolata con sei mezze figure di profeti e due figure di santi nel sottarco; nelle vele della volta, dall’alto in basso, appaiono il simbolo di un Evangelista, un Profeta e un evangelista fra due santi. Sulle pareti sono rappresentate l’Annunciazione, di cui rimane soltanto la figura dell’Angelo, e l’Adorazione del Bambino, sulla destra. Nella parete di fondo, cui si appoggia l’altare sormontato da un fastigio marmoreo dove è scolpita dalla bottega di Isaia da Pisa la Madonna col Bambino entro la mandorla sorretta da angeli, si distende la scena dell’Assunzione della Vergine tra gli Angeli e gli Apostoli. Sull’altare che reca a destra lo stemma dei Primomi, che successero ai Mazzatosta nel patronato della cappella, e a sinistra l’emblema dei Servi di Maria, era collocato un dipinto con la Madonna delle Grazie (autore ignoto del 1412). Nella parete sinistra si articola il capolavoro cui Lorenzo deve la sua fama: nella lunetta superiore la Presentazione di Maria al Tempio, nel fascione sottostante lo Sposalizio di Maria in cui Lorenzo tocca il vertice del capolavoro. L’affresco ha anche un grande valore documentaristico, “…sono molti giovani cavati dal naturale” scriverà il cronista viterbese Nicolò della Tuccia raffigurato nel personaggio “…vestito di paonazzo e col mantello addosso e una berretta tonda in testa e calze nere” situato nella parte destra dietro “…alla donna vestita di nero, in forma di vedova”. Se il premuroso cronista avesse considerato la curiosità di noi posteri, avremmo conosciuto anche i nomi dei giovani che rappresentano i pretendenti alla mano della Vergine raffigurati in atto di spezzare le verghe rimaste secche. La critica recente ha individuato in una serie di vicende cittadine diverse le ragioni della realizzazione del complesso decorativo della Cappella Mazzatosta: la miracolosa apparizione della Vergine avvenuta nel 1446 che aveva posto la chiesa di S. Maria della Verità in una posizione centrale nel panorama sociale cittadino; l’esaltazione del successo della crociata indetta da papa Paolo II contro Everso dell’Anguillara (l’ambizioso aristocratico che aveva tentato la creazione di un proprio stato sulle terre del Patrimonium Beati Petri), con il papa ritratto nelle sembianze del s. Gregorio dipinto nella volta; ed infine nella intenzione di esaltazione del faticato raggiungimento della pace cittadina che si esprime nel Matrimonio con la raffigurazione dei ritratti di membri delle famiglie dei Gatti e dei Maganzesi, capofila delle secolari lotte cittadine tra guelfi e ghibellini. Seguono, lungo le mura d’ambito dell’aula, i resti in stipiti sagomati in peperino, con arco a volta sormontato da cornice, della cappella di San Girolamo. Subito a seguire le strutture in peperino, simili a quelle precedentemente citate, segnalano la cappella detta “dei tedeschi” (Theutonicorum), poi passata alla corporazione corsa dei tessitori del lino, con dedica ai Santi Giacomo e Filippo Benizi (fondatore dell’Ordine Servita); quest’ultimi commissionarono per il loro altare a maestro Pancrazio Jacovetti da Calvi la pala con il Matrimonio mistico di s. Caterina attualmente presso il Museo Civico. All’inizio del transetto di destra è collocato il monumentale organo a trasmissione meccanica (2), commissionato dall’E.P.T. di Viterbo e realizzato nel 1986 da Guido Pinchi di Foligno su progetti di Luigi Celeghin. La cappella in fondo a questo braccio del transetto (già dedicata a San Sebastiano) apparteneva alla famiglia Spreca che nel 1591 fece eseguire alcune pitture di cui resta, sulla parete destra, un’immagine della Madonna. Sull’altare di forme barocche è collocata una tela tardo seicentesca con l’Immacolata Concezione attribuita al Mazzanti (3). Nel transetto di sinistra, concluso da un grande arco quattrocentesco a tutto sesto che precede l’attuale sacrestia, si fanno notare i resti di affreschi del XVI sec. Nella parete destra, dove era posta la cappella dell’Assunzione, osserviamo un Vescovo tra Angeli e la Madonna Lactans; in quella di sinistra compaiono, invece, tre riquadri definiti da eleganti cornici di gusto antiquariale dove sono dipinti S. Fabiano papa tra i santi Sebastiano e Rocco, la Trinità, la Stigmatizzazione di s. Francesco(4).. Nonostante che i tre singoli riquadri siano praticamente coevi, rimane evidente come gli ultimi due siano stati realizzati dopo il primo e sovrapposti ai precedenti dipinti, le stesse cornici che circoscrivono questi due ultimi riquadri pur rispettando il gusto all’antica sono di una fattura semplificata e più corsiva rispetto a quella più curata ed elegante della prima scena, ornata anche da un timpano centinato nella cui lunetta è dipinto in grisaille un Cristo al sepolcro. In via ipotetica, per affinità stilistica, si può avvicinare questo affresco a Cola da Roma di cui le fonti tramandano come avesse già affrontato lo stesso tema in una tavola autografa dipinta per la chiesa di S. Agostino a Narni. Cola, profondamente influenzato da Pinturicchio col quale è in grande familiarità, ha goduto di un suo pieno riconoscimento grazie ad un consistente numero di atti che, oltre a permettere di restituirgli la Madonna dei raccomandati del Museo Diocesano di Orte -finora attribuita al viterbese Giovan Francesco d’Avanzarano-, ne documentano una cospicua attività professionale e la lunga permanenza ad Orte, dove aveva eretto la sua residenza e dove vi muore tra il 1500-1502. Al pittore romano è attribuita anche un’opera in collaborazione con Giovan Francesco d’Avanzarano nella collegiata di Vignanello: la pala bifacciale con l’Assunta e il Redentore benedicente, una attribuzione ricca di suggestioni anche in considerazione di una ipotesi che tende a definire una interessante linea di ricerca quale il fatto che i due riquadri di S. Maria con la Trinità e la Stigmatizzazione di s. Francesco sono riferibili ad un maestro molto affine proprio ai modi del D’Avanzarano. Seguono, lungo le mura d’ambito della chiesa, i resti della cappella dei Lombardi, dedicata a Sant’Ambrogio, sulla parete sinistra, anche questo altare, così come gli altri sulle pareti opera dei maestri fiorentini Pietro e Sebastiano d’Antonio, fu eretto da un’Arte cittadina, la corporazione dei muratori, i quali commisero al maestro viterbese Costantino di Jacopo Zelli la Deposizione dalla croce -anch’essa conservata nel Museo Civico-, un’opera che presenta indelebili le stimmate dell’influenza della superba Deposizione di Sebastiano del Piombo. La decorazione dipinta della chiesa comprende anche la modesta cappella cinquecentesca sulla parete sinistra, vi compare una Madonna in trono tra i santi Giovanni Battista e Antonio Abate, in cui è dato notare l’intervento di almeno due maestri di ascendenza culturale vagamente peruginesca: uno autore della discreta figura di s. Giovanni, ad un secondo è da attribuire il resto del dipinto che si presenta molto più modesto rispetto alla figura del s. Giovanni. Sul dipinto compare un inserto datato 1611 con una fresca rappresentazione di genere con dei taglialegna al lavoro, una conferma dello stretto legame tra il complesso di S. Maria della Verità e le corporazioni cittadine. Segue poi la cappella dedicata a Sant’Antonio Abate, raffigurato in ambedue gli stipiti con i suoi tradizionali attributi del fuoco e del maiale. La chiesa di S. Maria della Verità ancora conserva, inoltre, frammenti della decorazione pittorica che tra la fine del XIII e gli inizi del XIV secolo ornavano le cappelle precedenti ai rifacimenti rinascimentali, sulle pareti laterali, queste furono realizzate sulla stessa tipologia di quelle erette nella chiesa di S. Maria Nova: nicchie centinate incassate nello spessore del muro. La sovrapposizione degli altari rinascimentali realizzati dai fratelli fiorentini Pietro e Sebastiano d’Antonio sullo scorcio del XV secolo aveva obliterato alla vista e alle funzioni liturgiche le antiche cappelle sostituite dai nuovi altari; una di queste, sulla parete sinistra, in seguito ai lavori di restauro resisi necessari per risarcire i danni dei bombardamenti del 1944, fu parzialmente riportata alla luce rivelando sul montante sinistro la frammentaria figura di S. Michele Arcangelo, una pregevole immagine che presenta impressionanti affinità stilistico-formali con quanto attribuito ad un grande rimasto anonimo quale il Maestro di Fossa, attivo nella chiesa di S. Ponziano a Spoleto. Il confronto viene a proporre con nuovi argomenti il problema delle strette connessioni artistiche tra l’area viterbese, l’Umbria Meridionale e l’Abruzzo nel Trecento.
CHIOSTRO
Nell’adiacente convento è allestito il Museo Civico di Viterbo. Pregevole il chiostro gotico, a pianta quadrata con eleganti polifore al piano terra (rinnovato nel XIV sec.), e con loggiato superiore frutto di un rifacimento rinascimentale; al centro del quadrato compare una cisterna datata 1536, già nel chiostro del distrutto monastero di S. Agostino.
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